lunedì 20 dicembre 2010

Governo e istruzione. Un bilancio

Massimo Baldacci

Sono passati oltre due anni dall’insediamento del nuovo governo, e del ministro Gelmini alla guida del Dicastero dell’Istruzione. Si può, perciò, tentare un primo bilancio di questa fase, per capire dove va la scuola italiana. A questo scopo, conviene però allargare lo sguardo all’intero ultimo decennio, che ha visto sostanzialmente la guida dei governi di centro-destra (con la parentesi del secondo governo Prodi).
All’inizio del decennio, l’onorevole Berlusconi aveva espresso il proprio pensiero sulla scuola compendiandolo nelle celebri “tre I”: impresa, inglese, internet. Il messaggio, al di là della schematicità dello slogan, pareva chiaro. Sia pure in modo implicito, s’indicava la scuola come un pezzo del sistema economico, impresa essa stessa e dunque chiamata a regolarsi secondo le logiche dell’efficienza e della produttività, e le si assegnava il compito di formare i produttori, ossia, il capitale umano necessario all’ottimizzazione del funzionamento di tale sistema. Inoltre, si poneva l’esigenza di una modernizzazione della scuola rispetto ai media che risultavano vincenti nell’economia globalizzata: la lingua veicolare planetaria (l’inglese) e il mezzo di comunicazione mondiale (internet). Si trattava, certamente, di una modernizzazione socio-tecnologica senza modernità culturale (per dirla con Habermas), che rimuoveva le utopie di emancipazione umana sostenute dalla pedagogia, e che metteva capo a una visione funzionalista dove la scuola era subordinata alla ratio dell’economia. Tuttavia, il messaggio aveva una propria logica, e come tale ricevette consensi da vari ambiti della società civile, preoccupati della competitività del nostro Paese nello scacchiere economico globale. Tale messaggio si presentava, però, fortemente difforme dalle concezioni pedagogiche e dai modi in cui la scuola stessa si percepiva, che potrebbero essere riassunti con tre C: comunità, cultura, conoscenza. La scuola si vedeva, infatti, come una comunità educativa volta ad assicurare la conoscenza del patrimonio culturale alle nuove generazioni, e credeva nel valore formativo della cultura al di là delle sue valenze utilitarie. Pertanto, le tre I potevano funzionare con l’opinione pubblica, ma non si prestavano a essere trapiantate direttamente nella scuola senza creare il rischio di una crisi di rigetto. Occorreva una mediazione capace di mettere in una forma pedagogica accettabile dal mondo della scuola lo spirito economicista e funzionalista delle tre I. A questo scopo, il ministro Moratti incaricò il professor Bertagna di disegnare la nuova “riforma” scolastica. Questi se la cavò egregiamente, radicando il nuovo corso su una propria interpretazione del concetto di “personalizzazione”. Tale concetto venne congegnato in modo tale da connettere l’esigenza economica della formazione dei produttori con l’idea della centralità della persona, cara al mondo della scuola e alla pedagogia, e particolarmente alle forze d’ispirazione cattolica. Grosso modo, secondo tale interpretazione, la personalizzazione consiste nella valorizzazione delle specifiche potenzialità di ogni persona, e sono tali diverse potenzialità che – portate al loro pieno sviluppo – definiscono la vocazione professionale di ciascuno. Perciò, personalizzare significa nel medesimo tempo formare il produttore e valorizzare la persona. Da questo quadro, cade fuori il concetto d’individualizzazione e l’idea che tutti, indipendentemente dalla propria estrazione sociale, devono poter raggiungere le competenze basilari per la formazione del cittadino, in quanto tale idea è considerata legata a concezioni paleo-illuministe o vetero-marxiste. Il modello di personalizzazione che ne esce ha, dunque, un carattere unilaterale (privilegia la formazione del produttore su quella del cittadino) ed è incline ad avallare le disuguaglianze culturali che derivano da quelle sociali (l’importante è che ognuno trovi la propria via, non tutti sono nati per studiare). Pur con questi limiti, l’elaborazione del professor Bertagna consegna al ministro Moratti un’idea di scuola; un’idea per molti (compreso chi scrive) non condivisibile, ma un’idea. L’idea dunque c’era, si trattava di renderla predominante. Il Ministero attivò, perciò, una potente e ben orchestrata campagna di propaganda per diffondere questa idea nella scuola: corsi di aggiornamento a tappeto per i docenti; riunioni capillari con i dirigenti per assicurare la cinghia di trasmissione dal centro alla periferia; convegni e pubblicazioni per affermare le “nuove” idee (che poi tanto nuove non erano). Si tratta di una vera e propria offensiva culturale, volta a conquistare il consenso della scuola (o almeno la sua adesione di facciata). Il disegno del ministro Moratti non pare, cioè, limitato al varo di una “riforma”, bensì sembra teso a conseguire un’egemonia culturale sulla scuola. All’atto pratico, la realizzazione di questo disegno trova però ostacoli non indifferenti: una parte consistente del mondo della scuola fa resistenza (le associazioni degli insegnanti, quelle dei genitori, i sindacati-scuola, una parte della pedagogia). Tale resistenza, inoltre, non è solo passiva, non si limita a rallentare l’attuazione della riforma, ma organizza un’attiva controffensiva culturale, con convegni, assemblee, conferenze, pubblicazioni. Il conflitto culturale sulla scuola si trasforma così in una sorta di “guerra di posizione” che impedisce il compimento del disegno egemonico del ministro Moratti.
Dopo la parentesi del secondo governo Prodi, e del relativo Ministero Fioroni, la marcia dei governi di centro-destra riprende, con il ministro Gelmini alla guida del Dicastero dell’istruzione. La direzione di marcia rispetto alla scuola, tuttavia, sembra sostanzialmente mutata. Il ministro esordisce con una serie di iniziative a effetto che sembrano però prive di una cornice organica, e appaiono anzi sconcertanti: dal ritorno ai voti, al cinque in condotta, al grembiulino, fino al ritorno al maestro unico, che colpisce una delle innovazioni più importanti della scuola di base: il team dei docenti nella scuola primaria. Il tutto legittimato col ritorno alla sana tradizione, a una scuola seria e meritocratica, e accompagnato da una serie di gravi tagli alle risorse della scuola, dal numero di cattedre ai fondi per il funzionamento. Come leggere queste mosse? Da un lato, sembra che i provvedimenti Gelmini abbiano mirato a creare effetti mediatici capaci di distogliere l’opinione pubblica dalla politica di tagli praticata verso la scuola. Dall’altro, pare che il ministro abbia rinunciato a un vero e proprio disegno egemonico sulla scuola (che implicherebbe la formazione del consenso), di difficile realizzazione con un scuola che non si è mostrata del tutto docile, e abbia scelto di parlare solo alle forze più tradizionali. Dall’altro ancora, sembra che la rinuncia a un’egemonia organica sulla scuola pubblica si coniughi con una politica di disinvestimento nei suoi riguardi, e con uno spostamento di risorse a favore della scuola privata. In ogni caso, si fatica a individuare l’elemento fondamentale per impostare una politica scolastica dotata di senso: un’idea di scuola. L’azione del ministro Berlinguer era stata sostenuta da un’idea di scuola, e lo stesso quella del ministro Moratti; idee che si potevano anche non condividere, ma con cui ci si poteva confrontare criticamente, e rispetto alle quali era possibile valutare la coerenza dell’azione di governo. Ma adesso pare scomparsa qualsiasi idea di scuola degna di questo nome, perché quella della “serietà” della scuola è solo un fantasma o una tautologia. È un fantasma se per serietà s’intende un anacronistico ritorno alla scuola selettiva, mentre tutti gli altri Paesi si preoccupano di contenere la dispersione e di allargare il numero di giovani che conseguono titoli superiori di studi (diplomi e lauree). È una tautologia se per serietà s’intende la capacità da parte della scuola di svolgere seriamente il proprio compito (e chi sarebbe a non volere la serietà così intesa?), perché allora tutto dipende da come si definisce tale compito, e tale definizione non è ben fondata se non si dispone di un’idea di scuola, ossia di ciò che pare mancare all’attuale Ministero. Ma il problema va oltre l’attuale ministro. Senza un’idea di scuola è come se la politica scolastica navigasse senza bussola: si rischia la deriva della scuola, il suo smarrimento in un oceano di richieste sociali, le più disparate, e di problemi formativi. La questione, allora, è se nella politica italiana esiste ancora un’idea di scuola, un’idea all’altezza dei tempi e delle sfide del mondo contemporaneo. Solo chi possiede una tale idea è legittimato a guidare la scuola.